Se fai qualcosa – qualsiasi cosa – per ottimizzare il tuo lavoro, prendendo scorciatoie o accrescendo l’« efficienza» di ciò che fai (e della tua vita), finirai per disamorartene. Gli artigiani ci mettono l’anima. (...) I Chief Digital Officer sono degli artigiani che padroneggiano le nuove arti
Artigiani
Se fai qualcosa – qualsiasi cosa – per ottimizzare il tuo lavoro, prendendo scorciatoie o accrescendo l’« efficienza» di ciò che fai (e della tua vita), finirai per disamorartene. Gli artigiani ci mettono l’anima.
Primo, gli artigiani lavorano per ragioni innanzitutto esistenziali, e solo secondariamente finanziarie e commerciali. Le decisioni che prendono sono finanziarie, ma non sono mai solo finanziarie.
Secondo, gli artigiani portano nel loro mestiere una qualche forma di «arte»; si tengono alla larga da quasi tutto ciò che ha a che fare con l’industrializzazione; coniugano arte e business.
Terzo, nel proprio lavoro mettono un po’ della propria anima. Non sono disposti a vendere un prodotto scadente, e tanto meno di qualità compromessa, perché ne va del loro orgoglio.
Infine, hanno dei tabù: ci sono cose che, per quanto redditizie, non saranno mai disposti a fare. Compendiaria res improbitas, virtusque tarda: «il male preferisce la via breve, la virtù quella lunga». Detto altrimenti, prendere scorciatoie non è onesto.
Provo a fare un esempio legato alla mia professione. Non è difficile capire che uno scrittore, di fatto, è un artigiano: vendere libri non è la sua motivazione ultima, ma al massimo un obiettivo secondario. E per tutelare la sacralità del prodotto, è assolutamente vietato fare certe cose. Nel 2001 la scrittrice Fay Weldon ricevette un compenso da Bulgari per reclamizzarne il brand inserendo nella trama di un romanzo alcuni riferimenti sui suoi splendidi gioielli. Fece un’esperienza da incubo, e si attirò lo sdegno di tutta la comunità letteraria. Ricordo anche che negli anni ottanta qualcuno provò a distribuire gratuitamente libri, inserendo messaggi pubblicitari all’interno del testo, come fanno le riviste. Fu un fiasco. Il lavoro di scrittura non si presta a essere industrializzato. Se ingaggiassi uno staff di scrittori per farmi «aiutare», il mio lavoro sarebbe più efficiente, ma rimarreste sicuramente delusi dal risultato. Alcuni autori, come Jerzy Kosinski, hanno provato a scrivere libri subappaltandone alcune parti, ma una volta scoperti hanno subito un totale ostracismo. L’opera di questi scrittori-con-subfornitori raramente è sopravvissuta loro. Un’eccezione è costituita da Alexandre Dumas padre, che sembra gestisse una bottega con (quarantacinque) ghost-writers, grazie alla quale riuscì a espandere la propria produzione letteraria, pubblicando ben centocinquanta romanzi e ritrovandosi nella paradossale situazione di leggere alcuni dei suoi stessi libri. Ma, in generale, la produzione di libri (a differenza della vendita) non è espandibile. Dumas si direbbe l’eccezione che conferma la regola. E ora, un’osservazione pratica.
Uno dei migliori consigli che io abbia mai ricevuto lo devo a Yossi Vardi, un imprenditore di successo (e felice) con qualche anno più di me, che mi ha raccomandato di fare a meno di assistenti. Il semplice fatto di avere una persona che ci aiuti ci porta a sospendere la nostra naturale azione di filtro, mentre se nessuno ci aiuta siamo costretti a fare solo ciò che ci interessa davvero, e progressivamente tutta la nostra vita viene incanalata in quella direzione (naturalmente quando parlo di assistente non mi riferisco a chi viene assunto per un compito specifico, tipo ordinare le carte, tenere la contabilità o innaffiare le piante, ma solo a quella sorta di angelo custode che dovrebbe tenere sotto controllo tutte le nostre attività). È un approccio di via negativa: noi non desideriamo lavorare di più, ma avere più tempo libero, ed è questo il criterio su cui dobbiamo valutare il nostro «successo». Se abbiamo un assistente finiremo per doverlo assistere a nostra volta, o per dovergli «spiegare» come deve fare le cose, il che ci richiederà uno sforzo mentale superiore a quello che serve per fare quelle stesse cose da soli. Oltre che nella mia attività di scrittore e studioso, ne ho guadagnato da ogni punto di vista: ora ho più libertà e più flessibilità, e sono molto più selettivo nel decidere che cosa fare, mentre i miei colleghi hanno giornate piene di «incontri» inutili e di corrispondenza inutile. Avere un assistente (al di là dello stretto necessario) ci impedisce di metterci l’anima. Se andiamo in Messico, pensiamo alla differenza tra crearci un nostro bagaglio di parole in spagnolo parlando con la gente e usare un traduttore istantaneo portatile. Farci aiutare ci allontana di un altro passo dall’autenticità. Anche gli accademici possono essere artigiani. Lo sono perfino gli economisti che, fraintendendo Adam Smith, dichiarano che gli uomini «puntano a massimizzare» il proprio reddito: essi esprimono gratuitamente queste idee e si vantano di non essere alla vile ricerca del profitto. Non si rendono conto della contraddizione.
Nassim Taleb - Rischiare Grosso - 2018
Chi sono i Chief Digital Officer?
I Chief Digital Officer sono degli artigiani che padroneggiano le nuove arti: crowdfunding, programmatic advertising, internet of things, 3D printing etc. Non solo perchè ci mettono l’anima, ma anche perchè lo fanno in primis per ragioni esistenziali e solo secondariamente per il beneficio economico che ne hanno. Non potrebbero occuparsi di altro nella loro vita. Non ci sono scorciatoie per farlo.
Diventare Chief Digital Officer
Non esistono Master o corsi abilitanti. Il loro connubio con un Digital Tailor non è "avere un assistente" bensì è più simile al rapporto di un giovane jedi con il proprio maestro: un legame tra pari, ma di età ed esperienze diverse, legati da un "guanxi" indissolubile.
La scelta che consigliamo noi è di far parte di una community di "pari" ed evolvere dal confronto con gli altri, cercando il vostro Digital Tailor.
Sei vuoi andare veloce, corri da solo. Se vuoi andare lontano, corri insieme a qualcuno. (Proverbio Africano)
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