Il Job-to-be-done: come un pezzo di legno può diventare un bambino vero

05/05/17 9.52 / Di Fabiana Lo Sicco

C'era una volta...

– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un pezzo di legno. Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d'inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze”.

Era soltanto un vecchio pezzo di legno: qualcuno lo avrebbe gettato nel fuoco per riscaldarsi, qualcun altro lo avrebbe utilizzato per costruire la gamba di un tavolino e qualcun altro ancora decise di trasformarlo nel burattino più famoso del mondo.

Un identico pezzo di legno, ma ogni persona che lo aveva guardato era riuscito a trovarvi un’utilità diversa: riusciva a fargli compiere un lavoro capace di soddisfare un’esigenza propria, specifica e diversa.

 

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Ognuno di loro non si era limitato ad utilizzare il prodotto così come gli era stato presentato, bensì in funzione del proprio bisogno o problema da risolvere. Chi aveva freddo, lo avrebbe bruciato; chi voleva guadagnare dei soldi, lo avrebbe trasformato nella gamba di un tavolino; chi aveva bisogno di amore, lo trasformò in un burattino.  

E chi lo aveva ceduto a mastro Geppetto, immaginava potesse accadere tutto ciò? In che modo chi si è trovato davanti questo pezzo di legno è riuscito ad immaginare un uso diverso da quello suggerito dalla persona prima di lui?

Questo processo di trasformazione tra la proposta originaria e l’effettivo utilizzo del prodotto in funzione del personale e specifico problema o bisogno da risolvere, è stato definito come “teoria del job-to-be-done”, elaborata da Clayton Christensen.

Con l’espressione “job-to-be-done” si intendono “tutte ciò che le persone stanno cercando di fare nella loro vita in termini di compiti che tentano di svolgere o completare, di problemi che cercano di risolvere o bisogni che provano a soddisfare”.

Questo concetto, apparentemente semplice, ci suggerisce che non è più possibile creare prodotti e servizi senza tenere presente il motivo per il quale i clienti li acquisterebbero: cosa devono farci?

È un mix di necessità e fantasia: è il job-to-be-done, cioè la capacità di un prodotto o di un servizio di risolvere una nostra esigenza, spesso anche molto diversa da quella per la quale, inizialmente, qualcuno ha scelto di metterla a nostra disposizione.

Ogni azienda dovrebbe preoccuparsi di scoprire il job-to-be-done del suo prodotto o del suo servizio ed evitare di chiudersi a riccio nella propria Value Proposition, che potrebbe non incontrare i gusti, le aspettative e i bisogni del target prescelto.

Lo capì McDonald’s, a proposito del suo milkshake che veniva acquistato non per i suoi ingredienti e non perché fosse il migliore tra i frullati in circolazione: semplicemente perché, a differenza di bagel, snack o frutti di stagione, era comodo da mangiare seduti in auto o camminando. E infatti la metà dei milkshake veniva venduta, come unico acquisto dello scontrino, entro le 8.30 del mattino e da clienti che arrivavano al fast-food con la propria macchina, da soli.

Non lo capì, invece, la Kodak, quando rimase aggrappata all’idea che il job-to-be-done delle fotocamere fosse quello di conservare per sé i propri ricordi grazie a rullini e fotografie stampate, e non quello, decisamente più azzeccato (e lo capirono Instagram e Facebook, anni dopo), di comunicare istantaneamente e velocemente tramite immagini con la propria rete di amici. Eppure già nel 1975 una macchina fotografica senza rullino era stata presentata ai vertici della Kodak, che però decise di tenere segreto il prototipo ritenendo che non ci fosse alcun interesse nel guardare una foto da uno schermo. L’azienda scelse di non investire in un prodotto che, almeno apparentemente, andava contro la sua principale linea di business, cioè le pellicole.

Lungi dal dimostrarsi un processo semplice e immediato, l’individuazione del job-to-be-done richiede, a mio parere, almeno 3 requisiti:

  1. la curiosità: occorre osservare i consumatori, capire le loro abitudini e chiedersi il motivo per il quale scelgono di compiere alcune azioni;
  2. l’assenza di pregiudizi e preconcetti sull’utilizzo del prodotto o servizio, sul target e sui competitor.
  3. la forza (o la possibilità) di accettare che i consumatori sono i reali padroni del nostro prodotto o servizio. Al di là di alcune limitazioni etiche o morali che ci farebbero proteggere il nostro prodotto o servizio da usi distorti, dobbiamo dimostrarci capaci di accettare le interpretazioni che il consumatore dà, anche se molto lontane da quelle da noi espresse nel business plan.

Riuscire a comprendere l’esatto job-to-be-done può condurre a scoperte inaspettate sul comportamento reale dei consumatori e talvolta anche decisive per il business futuro o per la corretta impostazione del business di un’azienda che vuole entrare in un mercato.

E la tua azienda, ha compreso il job-to-be-done dei suoi clienti? Il reale bisogno che questi ultimi vivono, viene sprecato nel fuoco, è usato al minimo delle sue potenzialità o può trasformarsi in un bambino vero?

 

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Topics: Inbound Marketing, Iper personalizzazione

Fabiana Lo Sicco

Scritto da Fabiana Lo Sicco

Abilitata all'esercizio della professione forense, con un master in Marketing Management e un lavoro da Digital Strategist. Specializzata in consulenza legale-digitale, prova a far dialogare due mondi distanti tra loro, per dimostrare che gli opposti si attraggono sempre.

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